La tosse, il raffreddore, la febbriciattola non danno tregua. Sbatan giò. Soprattutto i piccoli e gli anziani. Il nonno Giuseppe non aveva la macchinetta dell’aerosol. Come tutti gli anziani si organizzava coi vapori. La nonna Lina gli riempiva il catino di acqua calda (quella sempre a disposizione dentro la caldaietta della stufa a legna) ci versava dentro qualche cucchiaio di bicarbonato e aggiungeva due o tre foglie di alloro colte in giardino. Il catino era sorretto dal sostegno lavorato che stava di là, in stanza. Il nonno avvicinava la sedia, abbassava il viso sopra il liquido e copriva la testa con la salvietta. I vapori gli entravano nelle narici e a tratti lo si sentiva tossire là sotto. Segno per i nipoti che il nonno era ancora vivo. Qualche preoccupazione, infatti, loro l’avevano. Pareva che il nonno si stesse affidando ad una strega invisibile che lo costringeva a respirare la sua pozione magica. Non andava meglio a loro, quando avevano la tosse. Subito, ai primi sintomi, il rimedio della mamma scattava. La sera, prima di andare a letto, col pigiama già indossato, arrivava il momento della polentina. Niente a che vedere con la farina di mais cotta nello stegnàa. Piuttosto era una pezza bollente da appoggiare al petto appena spalmato col Vicks Vaporub. Una tortura. Non appena la mamma toglieva dalla stufa la pezza fumante, si capiva cosa sarebbe successo di lì a poco e iniziava il fuggi fuggi. Non c’erano alternative: la polentina andava applicata e tenuta lì per qualche tempo, almeno finché il Vicks non era assorbito dalla pelle. Aveva un profumo di pino, buono, allargava le narici. Se non fosse stato per la pezza bollente, si sarebbe potuto accettare, ma con la polentina no! Poi arrivava il cucchiaio pieno fino all’orlo di Proton, la vitamina D, il ricostituente insomma. Se tosse e raffreddore non passavano così, cominciavano i guai. Lo sapevano già che se fosse arrivato a casa il dottor Rossi, avrebbe prescritto le punture. Non c’era alternativa. Via in farmacia (Luoghi Pii in piazza, o Piccaluga o la comunale in via Manzoni) a comprare le fiale. Ma occorreva trovare la signora disposta a farle, le punture. Ce n’era più di una, con la mano più o meno leggera (o pesante): la sciura Pina alla Bria, oppure la Margherita o la Maria Ursulora in Dugana. La prescelta era quasi sempre la Maria. Donna robusta, di una certa età, capelli bianchi raccolti dietro con le forcine (ul bezin), abiti lunghi e scuri. Appena entrava in casa scattavano i pianti. Come quando il macellaio metteva piede nel stabiell per uccidere il maiale. Qui si trattava di guarire, non di uccidere. Ma vai a fargliela capire ai piccoli. La Maria Ursulora (da pronunciare con la ‘o’ tedesca, quella coi puntini sopra, tendente a ‘eu’) arrivava attrezzata. Veloce, appoggiava sul tavolo la scatoletta con gli aghi e i contenitori del siero. Chiedeva acqua calda per sterilizzare ogni cosa. Riempiva la siringa. Faceva uscire dalla punta una goccia del liquido, che guardava come fossero le lacrime della Madonna e poi zac, un colpo secco. E tutte le brutte parole che i piccoli conoscevano uscivano in un attimo dalla loro bocca.