La terza domenica di settembre è sempre stata la festa di bagaj’. La festa dell’oratorio maschile. Punto e basta.
La festa di bagaj voleva dire soprattutto ‘bumbulett, sarasett e saltamartin’, da comprare al Bazar dei Corbetta, in via Olmetto, e da far scoppiare per spaventare le ragazze.
Le bombolette erano innocui mortaretti simili a caramelle col cuore di briciole di polvere da sparo, avvolte nella carta colorata. Avrebbero fatto rumore scoppiando, scagliate contro il muro o schiacciate sotto i piedi.
C’erano anche i saltamartin, fatti a zig zag. Il botto più lungo stava all’estremità della serpentina. Ad ogni zig e ad ogni zag c’erano altri botti che scoppiavano in serie, facendo muovere il petardo proprio come un insetto saltamartino.
E c’erano le sarasette, tubicini simili a spolette, con le briciole di polvere da sparo dentro e con la bacchetta di legno finale. Lo stecchetto si infilava nel terreno o nel collo della bottiglia e da lì la sarasetta prendeva il volo fischiando. Si alzava anche dieci metri, sprigionava scintille e salutava col botto.
Quella domenica di settembre era festa grande in oratorio. Già i giorni prima, comunque, per buona pace di tutti, era indispensabile partecipare al triduo, tre incontri di preghiera più o meno veloci. Sfociavano poi nei preparativi per la festa: le bandierine colorate da appendere sotto il portico e lungo il perimetro della chiesa, le sandaline azzurre da far scendere dall’alto, dalle finestre che si affacciano sul cortile.
E, esperienza affascinante, vissuta la sera, di nascosto, come accade per i grandi progetti i cui disegni ed esecuzioni devono essere custoditi segretamente e gelosamente, il confezionamento delle mongolfiere colorate.
Era Angelo, il capitano, a dare la forma con le forbici ai fogli di carta velina di vari colori, a decidere la lunghezza delle bacchette di legno, leggere, sottili, elastiche, che costituivano lo scheletro dei grandi palloni.
Alcuni incollavano, altri creavano il cerchio inferiore col fil di ferro, col supporto per contenere la spugna, quella che sarebbe stata poi imbevuta di alcool e accesa al momento del decollo. Altri ancora procuravano la paglia da mandare in fumo per riempire il pallone e farlo volare su nel cielo, tutti a seguirlo con lo sguardo attento e la bocca aperta.
Anni prima i giovani di don Alessandro Luoni e di don Renato Coccè creavano fondali in legno e compensato. Ricordavano vedute e sagome di santi. Trasformavano il cortile in un grande palcoscenico davanti al quale la lunga fila di ragazzi arrivava in processione per la benedizione del pomeriggio, col Santissimo portato sotto il baldacchino e la campana che ne segnava il passaggio.
La festa ‘di bagaj’ era sinonimo di preghiera, di attenzione alla crescita di piccole foglioline di fede. E poi di bombolette, scoppi, nuvole di fumo, profumo di zolfo bruciato, gioventù.
E’ rimasta la gioventù: in oratorio può ancora trovare accoglienza e aiuto per crescere bene.