In ogni epoca, in ogni attimo, in ogni campo, ci sono personaggi impresentabili. Per mille ragioni. Ganassa, politici, sportivi, opinion makers. Impresentabile di certo non era Davide Galbiati, meglio conosciuto come Dolcino. Lui si presentava, eccome se si presentava. Lo faceva a modo suo, subito, dalla prima sera di campeggio dell’oratorio, a Moena, località Fango, verso il passo San Pellegrino.
Le tende erano allineate, le corde tese coi picchetti infilzati nel prato, le brande sistemate, le proprie cose messe al sicuro. La sua era vicina alla tenda cucina, dove Davide preparava i pasti per tutti. Aiutava don Luigi Bandera e metteva a disposizione uno dei suoi talenti: sapeva cucinare bene. E sfoggiava via via gli altri talenti. Sfoggiare era un verbo a lui caro. Perché per presentarsi, il Dolcino sfoggiava.
E sì. Sfamati tutti, si chiudeva un attimo in tenda, apriva il grande baule che si era portato appresso insieme alla piccola valigia con magliette, grembiuli e biancheria intima, e vi toglieva il mondo. Riappariva quando ormai era buio e si piazzava in piedi sulla grande pietra, in mezzo al campo, vicino al pennone con la bandiera.
«Radames – gridava -. Radames!»
Era il segnale per chi gli teneva corda. I più si domandavano cosa stesse succedendo, chi stesse rompendo il silenzio incantato della valle. Chi era ‘sto Radames che andavano cercando? Il faretto sparava il fascio di luce fino al grande sasso con Dolcino ritto in piedi. Meraviglioso. Presentazione da sogno.
Davide aveva smesso il grembiule da cucina e aveva indossato il vestito da egiziano, a righe, con cappello e barbetta da sfinge.
«Radames – ripeteva – dove sei stato fino adesso?»
E subito, con voce alterata, come faceva nelle rappresentazioni teatrali in oratorio qualche decennio prima, si dava lui stesso la risposta:
«Son stato al cesso!»
Lo spavento si tramutava subito in allegria. Tutti fuori dalle tende, tutti intorno al Dolcino che sera dopo sera si cambiava d’abito e rammentava i suoi personaggi teatrali. Una bella lista, tutti presentabili. Proprio come lui. Il baule misterioso che teneva in tenda era più che rifornito.
Di ritorno da una delle interminabili gite, quel giorno il passaggio per Cortina era inevitabile. Distrutti, senza la forza di dire parola, tutti i ragazzi del campeggio di don Luigi Bandera attendevano il pullmino Volkswagen guidato da Corradino per il rientro tra le tende. Arrivò con non poche difficoltà, il pullmino, perché per inserire la terza marcia Corradino doveva alzarsi dal sedile.
Quando si aprì la portiera, ne uscì uno sconosciuto. Un tirolese coi calzoni alla zuava, le bretelle colorate sopra la camicia scozzese, i gambaletti verdi con due palline rosse all’altezza dell’elastico. Due palline simili, pure rosse, pendevano anche dal collo della camicia, come il bargiglio del gallo.
Bastò che aprisse bocca.
«Le palle dei cannoni son di ferro, ci sono quelle tonde e quelle ovali,» cantava forte, camminando verso il famoso campanile.
Era lui, il Dolcino. Di nuovo trasformato. Fu come una ventata d’ossigeno per tutti i ragazzi sfiniti. Via di corsa, al suo seguito, battendogli le mani, come a un vero, onesto, presentabile, grande cuoco e grande uomo.